EUGENIO FIORENTINI

Roma 1930  -  Moresco (AP) 2005

 

A voler fare un ritratto preciso e completo di Eugenio, anche per uno come me che ha avuto il privilegio di frequentarlo per quasi mezzo secolo, si correrebbe il rischio di uscirne fuori restituendone un'immagine distorta e non esaustiva.

Tante le contraddizioni della sua personalità e complesse le pulsioni che hanno animato la sua intensa vita interiore.

Per questo ho pensato di limitare la presentazione di questo amico e artista, ad una sorta di “bozzetto” veloce, eseguito a tratti larghi, ma che ne restituisse comunque una rappresentazione attendibile.

Un’immagine dell’uomo, che possa costituire una chiave di lettura della sua attività di pittore, disegnatore e poeta.

 L’aspetto saliente della sua personalità probabilmente è legato ad una sorta di frenesia del vivere. Caratterizzata da una tensione continua verso la perfezione:  il massimamente bello, il massimamente buono, il massimamente luminoso,  che cozzava insistentemente e talvolta disperatamente con la realtà del quotidiano.

A questa tensione che non esiterei  definire di stampo mistico, era associata una volontà e un coraggio che lo guidava ad agire,  a buttarsi con tutta la sua intelligenza e sensibilità, nelle scommesse più difficili.

Ha aiutato adolescenti sfortunati e sbandati nel difficile compito di diventare uomini.

Ha messo tutto se stesso, per alcuni anni, al servizio della comunità in cui e per la quale, aveva deciso di vivere parte della sua vita.

Ha dato a profusione con l’unico intento di veder crescere armoniosamente ciò per cui si adoperava. Con una dose fortissima d’amore e incommensurabile di idealismo.

Una personalità forte ma al tempo stesso fragile.

Un uomo capace di raggiungere vette eccelse sul fronte della comunione col trascendente, ma anche profondità oscure e insondabili nel magma infuocato della sua sofferenza di uomo solo, quale ha avvertito di essere in molte fasi della sua vita.

Solitudine! Era questa una delle condizioni più temute dall’uomo Eugenio.

Aveva orrore della solitudine.

 Ed è qui che si configura il fare artistico come atto consolatorio. Come ricerca di quell’armonia, di quel bellissimo e di quel luminosissimo che sentiva talvolta latitante e inafferrabile in questa vita terrena.

 Nelle sue pitture ho letto da sempre questa ricerca del bello in sé. Dell’armonioso in sé. Del luminoso in sé.

Le forme da lui rappresentate, che siano persone o architetture, paesaggi od oggetti, non credo volessero rappresentare la bellezza in senso estetico, come spesso è stato inteso, ma la bellezza intrinseca del soggetto nella sua assolutezza.

Luci, ombre, atmosfere, linee, colori, forme geometriche, penso che volessero esprimere quell’armonia divina che riusciva a far propria solo in piccoli frammenti del suo travagliato esistere. 

D.M.